Tante storie per giocare. Dalle lotte dell’Alfa Romeo tre futuri possibili: uno inclusivo, uno eco-compatible, uno ...

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Come propone Gianni Rodari possiamo immaginare come avrebbe potuto essere e come potrà esserlo. Partendo non (solo) dalle nostre fantasie ma dalla memoria e dai documenti, fotografie, manifesti, video, interviste delle concretissime e futuristiche lotte della più grande fabbrica di automobili di Milano: l’Alfa Romeo di Arese.

Prima Storia, primo futuro: una metropoli più inclusiva. Lavorare all’Alfa Romeo è sempre stato un vanto. Le macchine che uscivano dal primo stabilimento del Portello (all'inizio del secolo scorso periferia di Milano oggi parte integrante del nuovo volto della metropoli scintillante) erano belle, rombanti e vincevano le corse in tutto il mondo. Operai, tecnici, impiegati e dirigenti entravano in fabbrica, lavoravano, mangiavano, studiavano, partecipavano di un sistema di protezione e solidarietà costruito con le richieste del sindacato e la disponibilità dell'azienda.
Milano e la sua Area Metropolitana è sempre stata un laboratorio di innovazione e di equilibrio tra la forza e la ragione, tra il conflitto e gli avanzamenti condivisi.
Capita che le automobili prodotte in quello stabilimento siano sempre più richieste: ma al Portello non c'è più spazio e allora ne costruiscono uno nuovo, più bello, più grande, ad Arese. E a popolare gli enormi spazi della nuova fabbrica arrivano migliaia di giovani uomini e donne dal resto d’Italia, soprattutto dal Sud. Trovano subito un loro posto nella fabbrica ma faticano a trovarlo nella città. “Non si affitta ai meridionali” si legge sui cartelli nelle case. A volte al posto di “meridionali” scrivono di peggio. E la prima soluzione sono pochi appartamenti, garage, case abbandonate, solai privi di servizi igienici e sovraffollati. Molti sperimentano il letto a rotazione. Come i turni in fabbrica ma al contrario.
E poi arrivano le famiglie, i bambini, i parenti e molti storcono il naso.
Queste giovani donne e uomini entrano in massa nel sindacato e lo cambiano. Dopo aver ottenuto importanti risultati nelle fabbriche cominciano a chiedere ai Comuni, alla Provincia, alla Regione investimenti adeguati per costruire case, scuole, trasporti per accogliere i “nuovi” milanesi. Si inventano anche l’1 per cento di tutta la contrattazione aziendale da dedicare non direttamente agli stipendi o ai servizi interni ai luoghi di lavoro ma ai servizi nel territorio e con questi soldi si siedono ai tavoli istituzionali per partecipare alle scelte e agli investimenti.

Seconda storia: un lavoro più sicuro e meno inquinante. Un’altra automobile. Superando le vecchie richieste di tipo risarcitorio (il lavoro pericoloso e usurante va pagato) la nuova classe operaia milanese chiede di non monetizzare più il rischio per la Salute ma di superarlo. Si sperimentano, seguendo l’esempio delle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni, accordi con le Unità Sanitarie del territorio e si costituiscono gli SMAL. All’Alfa mettono in discussione le modalità della verniciatura e chiedono di ridurre i danni per la salute di chi lavora in fabbrica e dei cittadini che abitano intorno. Costruiscono insieme ai Comitati di Cittadini e ai Comuni una campagna di sensibilizzazione, studiano assieme ai sindacati degli altri paesi europei come hanno affrontato il tema della verniciatura le altre fabbriche automobilistiche e riescono a convincere l’Azienda, le istituzioni ad investire per migliorare il ciclo di produzione, le sostanze utilizzate e ridurre le emissioni.
Ma non si fermano qui: Cominciano a pensare ad un’altra automobile, meno inquinante. Propongono una riflessione per rivoluzionare la mobilità dell’area metropolitana, a chiedere trasporti pubblici per avere una concreta alternativa all’uso dell’auto per recarsi al lavoro ma anche ad un’auto meno inquinante. E’ un’idea del sindacato e dei lavoratori quella di investire nelle Vetture a Minor Impatto Ambientale (VAMIA) prodotte ad Arese fino alla chiusura dello stabilimento.

Terza storia: un altro modo di fare l’automobile. Certo maggiori stipendi e una mensa decente, tutele sul lavoro e per la salute, investimenti sull’ambiente. Ma anche una diversa concezione della produzione di auto: un investimento sull’ergonomia e la gestione delle parti più pesanti e faticose ma anche il superamento dello spezzettamento delle mansioni imposte dal taylorismo. L’idea di far la fine di Charlot nella catena di montaggio di “Tempi Moderni” spinge gli operai e il sindacato a contestare quella impostazione a chiedere la ricomposizione delle mansioni delle persone che lavorano. Non più inchiodati in un unico punto della Catena a fare il solito gesto ripetuto all’infinito ma la possibilità di ruotare sulle postazioni in una logica di “isole di produzione” che spezzano la monotonia della Catena di Montaggio, arricchiscono la prestazione delle persone, assicurano maggiore qualità e controllo sulle auto prodotte. Per fare questo usano in modo massiccio le 150 ore retribuite dall’Azienda previste dal nuovo Contratto Nazionale dei Metalmeccanici del 1973 per permettere agli operai, soprattutto ai nuovi milanesi migrati negli ultimi anni, di completare gli studi, ottenere la licenza elementare, quella media e poter rivendicare un livello più alto, che garantisce uno stipendio più alto e un lavoro più ricco nelle isole di produzione. Lontani da un mondo governato dall’Intelligenza Artificiale che impone un modo “oggettivo” impersonale, sperimentano una pratica diffusa, condivisa e contrattata che permette alle persone di esprimere una intelligenza collettiva, investimenti e innovazioni tecnologiche finalizzate ad aumentare il benessere delle persone e la qualità delle auto.

Un altro modo è possibile. Questi futuri, questi sogni, questi esperimenti si scontrano con la nuova proprietà, la Fiat che si scontra frontalmente con il sindacato sui diritti e sulla possibilità di esprimere un punto di vista autonomo per poi confrontarsi per trovare modi migliori di vivere e lavorare all’Alfa di Arese. Molte cose resistono e sopravvivono all’arrivo della Fiat, molte cambiano ma fino all’ultimo, fino alla chiusura dello stabilimento di Arese quei sogni e i futuri possibili sono stati accarezzati e praticati.

E’ stato pensato, praticato e realizzato. E’ possibile raccontarlo e riprovare a farlo oggi nelle nuove fabbriche e nelle nuove produzioni materiali e immateriali delle nostre città