Il treno era fermo, come sempre quando c’era l’allarme aereo. Anche i finestrini erano occupati, come sempre in momenti del genere. Tutti sostenevano di vedere qualcosa – e anche questo accadeva ogni volta. Dopo qualche tempo ho trovato anch’io uno spiraglio: ma non ho visto niente. L’aria del primo mattino, fuori, era fresca e fragrante, sopra la distesa dei campi erano sospese strisce grigie di nebbia poi, all’improvviso, come uno squillo di tromba, si è levato da dietro un raggio rosso sottile e affilato e io ho compreso: stava sorgendo il sole. Era bello e nel complesso interessante: a quell’ora a casa dormivo sempre. Poi mi sono accorto di una costruzione subito alla mia sinistra, una fermata abbandonata da Dio o forse i primi segnali di una stazione più grande. Era una costruzione piccolissima, grigia e desolata, le piccole finestre erano chiuse e il tetto era ridicolo, tanto era scosceso, del resto ne avevo già visti di simili nella zona il giorno prima: davanti ai miei occhi quella costruzione prese poco a poco consistenza nella nebbia crepuscolare del mattino… Mi domandarono se alle volte non riuscissi a scorgere il nome del villaggio. Sì, ci riuscivo, ed erano addirittura due le parole che si leggevano in quella luce mattutina, in alto, sul lato stretto della costruzione, dalla parte opposta alla nostra direzione di marcia: “Auschwitz-Birkenau”. Imre Kertész – Essere senza destino